Ammetto di condividerla qui per rischiare di non perderla nel caso la elimini in qualche modo sul computer (e conoscendomi non è una cosa inverosimile).
Però se vi interessa...
Valéry: à la recherche de l’Art perdu
“On doit toujours s’excuser de parler peinture.
Mais il y a de grandes raisons de ne pas s’en
taire”[1]
P.Valéry,
L’influenza di un panorama ostile
Paul
Valéry nacque verso la seconda metà del XIX secolo, e più precisamente il 30
ottobre 1871, in un periodo in cui era ancora percepibile quel sentimento di “mal du siècle” romantico fatto di tedio,
annichilimento e malinconia. La Francia era appena uscita sconfitta dalla battaglia
di Sedan contro il Regno di Prussia con la conseguente grave perdita dell’Alsazia-Lorena
e si apprestava ad attraversare una grave depressione ventennale. A conclusione
di questa fase ostica e malsana, nel 1895, comincerà una periodo di pace e
benessere che alimenterà il mito della “belle
époque”, ovvero di un’epoca di spensieratezza ed eleganza che, come testimonieranno
innumerevoli scoperte rivoluzionarie, farà del progresso la sua parola chiave.
Dietro questa calma apparente però si nasconderà una certa turbolenza frammista
ad un sentimento di disagio e di alienazione che da lì a pochi anni avrebbe
portato allo scatenarsi di un terribile e smodato conflitto di livello
mondiale.
Edvard Munch, “Il grido”,1893,
olio, tempera,
pastello su cartone, 83,5×66 cm, Galleria nazionale, Oslo
|
E
questa ombra di agitazione verrà avvertita chiaramente da artisti e letterati
che, attraverso le loro opere, si faranno garanti di una società sempre più
profondamente classista e inquieta.
E’ in tale clima che Edvard Munch innalzerà,
mediante la sua celebre opera “Il grido”
(1893), un urlo agghiacciante di afflizione e sgomento anticipatore di quel
disagio che le cosiddette Avanguardie storiche mostreranno chiaramente attraverso
le loro opere rivoluzionarie.
Le esperienze artistiche dei primi del
Novecento matureranno, infatti, in un contesto generale più che mai ricco di
incertezze e perplessità. Gli studi che proprio in quegli anni Sigmund Freud
stava compiendo sulla psicoanalisi, scoperchiando per la prima volta quel mondo
che risiede nell’inconscio di ciascuno di noi e che a volte riesce a
manifestarsi solo attraverso i nostri sogni o brame repressi, contribuiscono ad
aprire ulteriori orizzonti di ricerca. In pratica l’arte non deve più trovare
le proprie motivazioni soltanto in quella realtà visibile che i filosofi
chiamano fenomenica, ovvero percepibile attraverso i fenomeni nei quali si
manifesta, ma può aprire la propria indagine anche nel campo sconfinato della
realtà interiore e del sogno.
Sul
piano della ricerca scientifica, invece, le elaborazioni teoriche di Albert Einstein
dimostrarono che spazio e tempo non sono entità assolute, tra loro distintive e
indipendenti.
Contemporaneamente
destarono grosso scalpore anche le riflessioni del filosofo francese Henri
Bergson secondo cui l’energia fondamentale che muove l’universo è quella che
egli definisce slancio vitale e che consiste in un irresistibile impulso a
creare spontaneamente forme e situazioni sempre nuove e imprevedibili. In tale
visiono il tempo non esiste più come successione di singoli attimi, ma come
durata complessiva, percepibile più a livello di intuizione che con gli
strumenti razionali.
E’
questo lo scenario in cui sorsero le cosiddette Avanguardie storiche. Tra
queste la principale è il Fauvismo che, originatosi attorno al 1905, affermava il
bisogno di dipingere secondo il proprio sentire interiore e non sulla base di
impressioni. Una pittura quindi immediata e istintiva in cui il colore è
assolutamente svincolato dalla realtà che rappresenta.
Dello
stesso anno è il movimento del Die Brücke ("Il Ponte")
che esasperava la forma mediante linee ad angolo aguzzo.
Con il Cubismo, nel 1907, si ebbe invece una semplificazione
delle geometrie dei corpi e dello spazio, che viene esso stesso materializzato
divenendo un oggetto al pari degli altri, da scomporre secondo i taglienti
piani geometrici che lo compongono, a cui si aggiunge une percezione della
realtà non più visiva, ma mentale, volta cioè a rappresentare tutto quello che
c’è e non solo quello che si vede.
Poi, il 20 febbraio 1909, si ebbe il Futurismo la cui nascita
è sancita da un Manifesto pubblicato da Filippo Marinetti sul giornale francese
“Le Figaro”. Tale movimento puntava
all’esaltazione della velocità espressa dalla nuova immagine dell’automobile,
la cui bellezza viene ritenuta maggiore di quella della Nike di Samotracia. Vi
è infatti un rifiuto del mondo classico
A tale movimento seguì, nel 1912, l’Astrattismo che prendeva
ad esempio la musica, considerata pura espressione di esigenze interiori e non
imitatrice della natura, e prescindeva dal mondo sensibile, concreto, della
realtà conosciuta e conoscibile.
In seguito, nel 1916, sorse il Dadaismo, un movimento che era
un nonsenso per definizione, tutto e nulla, gioco e paradosso. Esso puntava a
riscattare l’umanità dalla follia che l’aveva condotta alla prima Guerra
mondiale, e prova a farlo mediante il rifugio nella follia innocua dell’ironia
e del ‘nonsense’ e il conseguente rifiuto, all’interno dell’opera d’arte, della
bellezza, che è morta.
Enigmatiche erano invece le atmosfere espresse dalla pittura
metafisica, costituitasi nel 1917. Luoghi che assumono l’aspetto di palchi
dominati dal silenzio e dall’attesa di eventi sconosciuti, su cui prendono
armonicamente posto non persone, ma manichini.
Infine, nel 1924, si costituì il movimento surrealista di cui
Andre Bréton si può ritenere il fondatore. Tale avanguardia constatava che il
sogno può costituire un’ottima parentesi all’interno della vita quotidiana
dell’uomo e perciò lo esaltava, così come fa col mondo dei simboli e
dell’irrazionale, attraverso un’arte prevalentemente figurativa e, tranne
qualche eccezione, non astratta.
E’ questo il contesto
storico, artistico e culturale in cui Valéry crebbe e costituì il suo pensiero.
Uno scenario che dietro una prima calma apparente celava in realtà le avversità
di una società sempre più disorientata e pronta a frammentarsi da un momento
all’altro, la cui spaccatura definitiva si ebbe con lo scoppio del primo grande
conflitto mondiale ripercuotendosi in modo non indifferente anche sulle vite di
artisti e letterati e di conseguenza sul loro pensiero.
Dall’esposizione di tale panorama sarà facile comprendere la
concezione che Paul Valéry venne a concepire di arte e il motivo per cui
rinnegò tutte quelle forme e movimenti artistici precedentemente discussi che
si susseguirono nella prima metà del ‘900 a favore invece di taluni grandi pittori
dell’Ottocento e, facendo un passo ancora più addietro nei secoli, di quello
che ancor oggi è ritenuto uno dei più grandi artisti di sempre, ovvero Leonardo
da Vinci, “l’artista stesso del mondo[2]”.
Cerchiamo quindi di inoltrarci in questa questione partendo
innanzitutto dalla considerazione di Valéry sull’arte.
L’arte secondo Valéry
Valéry e Léonard: tra arte e
scienza
Scrive Elena Pontiggia nella
sua efficace postfazione ai Pièces sur l'art di Paul Valéry:
“Per Valéry l’arte è soprattutto esercizio nel duplice
senso di azione e di compito tecnico. L’opera viene indicata con un vocabolario
scientifico: si parla di ricerca, di operazioni, di problemi, di metodi, di
precisione e di esattezza, di regole da seguire. Ma la scienza prevede una
conclusione positiva, un momentaneo approdo: la coperta, la soluzione, la
legge. L’arte invece si muove verso una meta aleatoria, sempre differibile: la
sua perfezione consiste piuttosto in una possibilità.” [3]
Un’idea di arte quindi molto vicina a quel pensiero
leonardiano, a quel suo “metodo”
tanto caro a Valéry. Un modo di fare arte incentrato su un procedimento di tipo
scientifico e quindi basato su un’analisi attenta e accurata.
Gli elementi devono essere
studiati a fondo, “dissezionati”, al
fine di capirne i funzionamenti e le peculiarità. E’ questo uno degli aspetti
che il poeta apprezza in Leonardo da Vinci.
Ogni sua opera era studiata meticolosamente attraverso schemi
di linee per individuarne la giusta prospettiva e le corrette proporzioni, il
tutto testimoniato da scritti e disegni vari.
Scrive lo studioso d’arte
cinquecentesco Giorgio Vasari sull’artista fiorentino:
“Non solo esercitò una professione, ma tutte quelle,
ove il disegno s’interveniva […] ed era in quell’ingegno infuso tanta grazia da
Dio ed una demostrazione sì terribile, accordata con l’intelletto e memoria che
lo serviva, e col disegno delle mani sapeva sì bene esprimere il suo concetto,
che con i ragionamenti vinceva e con le ragioni confondeva ogni gagliardo
ingegno.” [4]
Una mente la sua capace di
andare oltre quelli che fino a quel momento erano considerati limiti
insormontabili. A lui piace osare, non desiste “dall’indagare nemmeno su ciò che è contenuto nel più esiguo frammento,
nella più piccola scaglia del mondo”[5].
Dice a tal riguardo Valéry
nell’“Introduction
à la méthode de Léonard de Vinci” che “Léonard,
de recherche en recherche, se fait très simplement toujours plus admirable
écuyer de sa propre nature; il dresse indéfiniment ses pensers exerce ses
regards, développe ses actes; il conduit l’une et l’autre main aux dessins les
plusprécis; il se dénoue et se rassemble, resserre la correspondance de ses
volontés avec ses pouvoirs, pousse son raisonnement dans les arts, et préserve
sa grace.”[6]
Insomma questo è Leonardo,
il più grande artista non solo del Rinascimento, ma di tutti i tempi, “le maitre des visages, des anatomies, des
machines. […] Il s’est élevé à les voir dans leur ensemble mécanique, et à les
sentir dans l’indépendance apparento u la vie de leurs fragments, dans une
poignée de sable envolée éperdue, dans l’idée égarée de chaque combattant où se
tord une passion et une douleur intime. Il est dans le petit corps
«timide et brusque» des enfants, il connaît les restrictions du geste des
vieillards et des femmes, la simplicité du cadavre. Il a le secret de composer
des êtres fantastiques dont l'existence devient probable, où le raisonnement
qui accorde leurs parties est si rigoureux qu'il suggère la vie et le naturel
de l'ensemble.[7]
Valéry ritiene assurdo osservare
un’opera di Leonardo prescindendo da tutto il lavoro meticoloso che vi sta
dietro e che ha portato l’artista a compiere determinate scelte stilistiche e
compositive.
Il pittore fiorentino non si serviva
affatto di osservazioni inesatte e di segni arbitrari e ciò che lo guidava
nelle sue scelte era “un’indefessa
capacità di discernimento”.
Tutto ciò è appropriatamente
ravvisabile nei numerosi disegni che precedono la realizzazione delle sue “œuvres d'art”, dei veri e propri progetti con tanto di scritte a lato.
Uno studio anatomico indiscutibile all’interno di quella che lui stesso
chiamava “scienza della pittura”.
A tal proposito, all’interno del suo Trattato
della pittura, Leonardo afferma che fra
le scienze la pittura “è la prima; questa
non s'insegna a chi natura nol concede, come fan le matematiche, delle quali
tanto ne piglia il discepolo, quanto il maestro gliene legge. Questa non si
copia, come si fa le lettere [...] questa non s'impronta, come si fa la
scultura [...] questa non fa infiniti figliuoli come fa i libri stampati;
questa sola si resta nobile, questa sola onora il suo autore, e resta preziosa
e unica, e non partorisce mai figliuoli uguali a sé». Gli
scrittori a torto non hanno considerato la pittura nel novero delle arti
liberali, dal momento che essa non solo «alle opere di natura, ma ad infinite
attende, che natura mai creò». E non è colpa della pittura se i pittori non
hanno saputo mostrare la sua dignità di scienza, poiché essi non fanno
professione di scienza e «perché la lor vita non basta ad intender quella.
Il primo principio della scienza della
pittura è il punto, il secondo è la linea, il terzo è la superficie, il quarto
è il corpo [...] il secondo principio della pittura è l'ombra»; e si estende
alla prospettiva, che tratta della diminuzione dei corpi, dei colori e della perdita
della cognizione de' corpi in varie distanze. Dal disegno, che tratta della
figurazione dei corpi, deriva la scienza che si estende in ombra e lume, o vuoi
dire chiaro e scuro; la qual scienza è di gran discorso.”[8]
Fino a questo punto abbiamo parlato
di ciò che ha portato Valéry ad elogiare e a prendere come spunto un grande
artista del passato quale appunto Leonardo, ma perché ripudiava l’arte moderna?
Quale concezione aveva di essa?
Valéry constata come gli artisti moderni
realizzino opere più come denuncia di un determinato stato di inquietudine
risultante dal periodo periodo storico in cui vivono. Attraverso l’arte cercano
un rifugio, una parentesi da tutto ciò che li attornia. E’ per questo che
dipingono e non più per la ricerca di quel “bello
ideale” indagato per secoli da pittori e scultori. Tutte le ricerche e i
modelli artistici che prima di loro si sono susseguiti vengono quasi
completamente accantonati.
Il sorriso della Monna Lisa viene
così celato dall’ironica aggiunta di baffi e pizzetto nel ready-made
rettificato del dadaista Marchel Duchamp; i paesaggi a resa quasi fotografica
di vedutisti settecenteschi come Canaletto e Guardi vengono ora assorbiti dalla
compenetrazione di luce e spazio, con tanto di stravolgimento di tutte le
regole prospettiche, all’interno delle opere cubiste; la tanto contemplata “Nike di Samotracia” viene sopraffatta,
nelle opere futuriste, dal rombo dei motori delle automobili in corsa.
Questi sono solo alcuni esempi di come le Avanguardie
storiche si siano distaccante enormemente dal passato facendosi garanti di un
modo di fare arte totalmente diverso e rivoluzionario, che mostra chiaramente i
segnali di un’epoca di atrocità che si cerca, a seconda dei casi, di denunciare
o eludere. A nessuno preme più di perseguire il “bello ideale”, di realizzare un’opera che venga ricordata, per la
sua maestosità, nei secoli a seguire.
Tale
arte però era troppo lontana dalla concezione che di essa aveva Valéry, ancora
radicata al passato, a quel metodo leonardiano di cui si è a lungo discusso in
precedenza.
In “Pièces sur l'art”, il
poeta afferma:
“L’allure de la modernité
est toute celle d’une intoxication. Il nous faut augmenter la dose, ou changer
de poison. Telle est la lo. De
plus en plus avancé, de
plus en plus intense, de
plus en plus grand, de
plus en plus vite, et
toujours plus neuf,
telles sont ces exigences, qui correspondent nécessairement à quelque
endurcissement de la sensibilité. Nous
avons besoin, pour nous sentir vivre, d’une intensité croissante des agents
physiques et de perpétuelle diversion… Tout le role que jouaient, dans l’art de
jadis, les considérationd de durée est à peu prés aboli. Je pense que personne
ne fait rien aujourd’hui pour être gôuté dans deux cent sans. Le ciel, l’enfer,
et la postérité ont beaucoup perdu dans l’opinion.”[9]
Valéry e l’Impressionismo
Ancora vicina, almeno in parte, a
questo suo pensiero era la concezione artistica portata avanti dal movimento
ottocentesco dell’Impressionismo. Esso, infatti, pur mostrando aspetti
certamente innovatori, riporta alla luce tematiche ampiamente affrontate nel
passato, in primis quella del paesaggio. Bisogna però premettere che il tema
del paesaggio, come avremo modo di vedere successivamente, era rifiutato da
certi impressionisti come Degas.
La sostanziale diversità dell’Impressionismo,
che si situa in arco cronologico che va dal 1874 al 1886 (anni rispettivamente
della prima ed ultima mostra impressionista), rispetto a ogni altra forma
pittorica, risiede nel diverso modo di porsi in rapporto con la realtà esterna.
Gli artisti che ne fanno parte si rendono conto che tutto ciò che viene
percepito con gli occhi continua al di là del nostro campo visivo. Da questo
deriva una quasi totale abolizione della prospettiva geometrica. Ciò che per
loro conta maggiormente è la percezione che un certo stimolo esterno è in grado
di suscitare. Partendo dalle proprie sensazioni, l’artista opera una sintesi sistematicamente
tesa ad eliminare il superfluo per giungere a cogliere la sostanza delle cose e
delle situazioni al fine di ricercare l’impressione pura.
Le opere venivano realizzate en
plein air, all’aria parte, e con rapide pennellate di colore.
Influenti, inoltre, furono sicuramente l’invenzione
della fotografia, che spinse certi artisti a cercare di rendere nelle loro
opere un certo taglio fotografico, e gli studi sul colore effettuati in quegli
anni dal chimico Chevreul.
Un’ arte quindi in stretto contatto ancora una volta con la scienza,
seppur decisamente lontana da quella “scienza
dell’arte” elaborata dal Leonardo.
Manet e la “bella
pittura”
Precursore di tale movimento è, riprendendo un’espressione di Valéry “lo scettico Manet, parigino disinvolto”
che “credeva unicamente nella bella pittura”[10].
In particolare Valéry
lo decanta attraverso la descrizione di un suo ritratto di Berthe Morisot, una
pittrice francese anch’essa impressionista.
Tale ritratto viene
descritto da Paul Valéry in questo modo:
Edouard
Manet (1832-1883).Berthe Morisot
con un mazzo di violette”, 1872. Olio su tela. Cm 55 x 40
|
Sur le fond
neutre et clair d’un rideau gris, cette figure est peinte : un peu plus petit
que nature.
Avant toute chose, le Noir,
le noir absolu, le noir d’un chapeau de deuil et des brides de ce petit chapeau
mêlées de mèches de cheveux châtains à reflets roses, le noir qui n’appartient
qu’à Manet, m’a saisi.
Il s’y rattache un enrubannement large et noir, qui déborde l’oreille gauche,
entoure et engonce le cou ; et le noir mantelet qui couvre les épaules, laisse
paraître un peu de claire chair, dans l’échancrure d’un col de linge blanc.
Ces places
éclatantes de noir intense encadrent et proposent un visage aux trop grands
yeux noirs, d’expression distraite et comme lointaine. La peinture en est fluide, et venue facile, et obéissante
à la souplesse de la brosse ; et les ombres de ce visage sont si transparentes,
les lumières si délicates que je songe à la substance tendre et précieuse de
cette tête de jeune femme par Vermeer, qui est au musée de La Haye.[11]
Una descrizione decisamente attenta e accurata per uno
che dice di non avere “la pertinence de rechercher la substance de l’art de
Manet”[12]
Questa pittura viene ritenuta sublime dal poeta. Una
serie di colori e di linee che nella loro semplicità catturano a sé
l’osservatore che si smarrisce nella profondità degli occhi della donna, di un
nero, come definisce Valéry, “onnipresente”.
Una combinazione questa che genera in quest’ultimo la sensazione di trovarsi di
fronte ad una vera e propria poesia che “par
l’harmonie étrange des couleurs, par la dissonance de leurs forces; par l’opposition
du détail futile et éphémère d’une coiffure de jadis avec je ne sais quoi
s’assez tragique dans l’expression de la figure, Manet fait résonner son œuvre, compose du mystère à
la fermeté de son art.”[13]
Quindi non più solo accostamento tra arte e scienza,
ma addirittura tra arte e poesia.
Degas: “il pittore delle ballerine”
Proprio questo modo di “dipingere” poesie era motivo di ammirazione e allo
stesso tempo di livore per uno dei rappresentanti di spicco
dell’Impressionismo, ovvero Edgar Degas.
A tal proposito, in “Degas
Danse Dessin”, Valéry, parlando di Degas, scrive:
“Il admire et invie l’assurance de Manet,
de qui l’œil et la main sont
les certitudes, qui voit infailliblement
ce qui, dans le modèle, lui donnera l’occasion de donner toute sa force,
d’exécuter à fond. Il y a chez Manet une puissance décisive, une sorte
d’instinct stratégique de l’action picturale. Dans ses meilleures toiles, il
arrive à la poésie, c’est-à-dire au suprême de l’art, pa ce qu’on me
permettra de nommer…la résonance de l’exécution”[14].
Tuttavia Degas era continuamente insoddisfatto della propria arte che
continuò ad affinare con lo studio dei grandi del Rinascimento e le sue opere
non potevano mai dirsi concluse poiché ogni volta che vi si ritrovava dinnanzi
era pronto ad afferrare pennello e tavolozza e apportare nuove modifiche,
spesso anche radicali.
Dietro alla realizzazione delle sue tele vi erano studi meticolosi
testimoniati da innumerevoli disegni che riportano alla mente, seppur vagamente,
quelli del grande Leonardo da Vinci.
Lui dava, a differenza degli altri impressionisti, grande importanza al
disegno, eseguito non all’aria aperta, ma nel suo atelier. Secondo l’artista,
infatti, anche l’impressione di un istante è così complessa e ricca di
significati che l’immediatezza della pittura en plein air non può che cogliersi in modo riduttivo e superficiale. “Va molto bene copiare quel che si vede”, affermava
l’artista, ma è assai preferibile
“disegnare quello che non si vede più, se non nella memoria; è una
trasformazione in cui l’immaginazione collabora con la memoria, e così non si
riproduce se non quello che vi ha colpiti, cioè l’essenziale”.
La maggior parte di questi disegni preparatori ruota soprattutto attorno al
tema della danza e infatti Valéry denominava Degas: “il pittore delle ballerine”.
Edgar Degas, “La lezione
di ballo”, 1873-1875.
Olio su tela. 85x75 cm. Parigi, Musée d’Orsay.
|
Primo dei grandi
dipinti appartenente alla serie della ballerine è “La lezione di ballo” realizzata tra il 1873 e il 1875. In esso
l’artista rappresenta il momento in cui una ballerina sta provando dei passi di
danza sotto l’occhio vigile del maestro mentre le altre ragazze, disposte in
semicircolo, osservano attendendo a loro volta il proprio turno di prova.
Numerosi sono gli studi compiuti attorno ciascuna delle ballerine del dipinto
che il pittore eseguì con scrupolosa attenzione e di cui sono testimoni decine
di schizzi preparatori.
“Nessun’ arte è tanto poco spontanea
quanto la mia”, confessa al riguardo l’artista, “e quanto io faccio è il risultato della riflessione e dello studio dei
grandi maestri. Dell’ispirazione, della spontaneità e del temperamento”,
conclude provocatoriamente, “non so
assolutamente nulla”.
I gesti e le movenze delle ballerine sono indagati con attenzione
ossessiva. Una, seduta su di un pianoforte, si gratta la schiena, un’altra che
si fa aria con un ventaglio, un’altra ancora che ride e così via.
Insomma ogni
personaggio è colto in atteggiamenti quotidiani, o meglio, riprendendo una
frase dell’artista stesso, “come se si guardassero dal buco della
serratura”.
Scrive ancora una volta Valéry in “Pièces
sur l'art”:
“Il a beau s’attacher aux
dancers: il les capture plutôt qu?il ne les enjôle. Il les définit.
Comme un écrivain qui veut atteindre la dernière
précision de sa forme multiple les brouillons, rature; avance par reprises, et
ne se concède jamais qu’ il ait rejont l’état posthume de son morceau, tel
Degas: il reprend indéfiniment son dessin, l’approfondit, le serre,
l’enveloppe, de feuille en feuille, de calque en calque.
Il revient parfois
sur ces sortes d’épreuves; il y met des couleurs mȇle le pastel au
fusain: les jupes sont jaunes sur l’une, violettes sur l’autre. Mais la ligne,
les actes, la prose, sont là-dessous; essehtiels et séparables, utilisables
dans d’autres combinasons.”[15]
Nelle tele di Degas non c’è
più spazio per una rappresentazione di odalische o veneri che si accosti a quel
“bello ideale” tanto ricercato in
passato, fin dall’arte classica. A lui interessa rappresentare la spossatezza,
i gesti e le le movenze di queste danzatrici in un’epoca in cui il quotidiano
si era sostituito alla mitologia e le ballerine alle dee.
Le sue opere esibiscono
inoltre il forte interesse di Degas per la fotografia che proprio in quel periodo
si stava sviluppando. Molte, infatti, tra cui anche “La lezione di ballo”, mostrano
un netto taglio fotografico e, proprio come in un’istantanea, alcune figure
risultano fuoriuscire dall’inquadratura.
Alla fine Valéry trovandosi
di fronte alle mirabili tele degassiane non può che rimanere esterrefatto e
riconoscervi qualcosa di superiore, accostabile, proprio come in quelle di
Manet, alla poesia.
I paesaggi poetici di
Corot
Un ultimo pittore fra quelli
trattati in “Pièces sur l’art” che
Valéry considera anche poeta è Camille Corot. Questi appartenne alla cosiddetta
scuola ottocentesca di Barbizon, ovvero a quella corrente paesaggista del
realismo collegata alla località di Barbizon, in Francia.
Aggiungi didascalia |
Certamente egli non ha
niente a che vedere con un’artista come Degas che rifiutava la rappresentazione
del paesaggio.
Valéry elogia Corot che è in
grado di rendere, attraverso i semplici mezzi dell’artista, qualcosa di si
stupefacente, “de merveilles” di luce e spazio.
“Jamais arbres plus vifs, plus mouvantes nuéès,
ni de lointains plus larges, ni de terre plus sûre, ne furent faits de traits sur le papier.”[16]
I quadri di Corot si tingono di mirabili sfumature che
ammaliano e allo stesso tempo travolgono l’osservatore fino a dargli quasi l’impressione
di trovarsi lui stesso in quei suggestivi paesaggi, vere e proprie poesie di
colori.
Un epiteto, quello di poeta, ovviamente non
attribuibile, secondo Paul Valéry, ad ogni pittore illustre, almeno non in
egual misura.
«Tous le peintres, pourtant, - j’entends tous les
meilleurs, - ne sont pas également poétes.
On voit quantiés d’admirables tableaux qui s’imposant
par leurs perfections, toutefois ne “chantent” pas.
Mȇme, il arrive que le poète naisse tard dans un peintre qui,
jusque-là, n’était qu’ un grand artiste»[17]
Tali paesaggi sono ancora testimonianza
di un’assiduità di prove e pazienti studi, ma Valéry temeva un progressivo
distacco dell’arte da tali elementi. Un timore non infondato considerando che
con l’affermarsi delle Avanguardie, a partire dai primi del ‘900, il paesaggio comincerà
pian piano ad assumere un ruolo secondario fino a dissolversi completamente,
sostituito da quelle forme e colori puri che assumeranno il ruolo di unici veri
soggetti dell’opera.
Per cui Valéry si sente in dovere di
elogiare Corot in quanto uno degli ultimi paesaggisti in grado di realizzare
dei veri e propri paesaggi lirici che mostrano il suo forte desiderio di
conoscere i meandri più segreti e nascosti della natura.
Non si può quindi che appoggiare Valéry
quando ritiene Corot, esattamente come Leonardo, Manet e Degas, un artista
capace di rendere le sue tele vere e proprie poesie. Ovviamente, però, ognuno
lo fa con un suo stile e metodo personale e inimitabile.
Valéry…anche pittore?
Ma così come essi divengono poeti nella visione di Valéry, è forse
azzardato ritenere quest’ultimo un pittore?
Valéry, tra l’altro, realizzò numerosi disegni preparatori, con
tanto di descrizioni, in riferimento ai suoi scritti, influenzato,
probabilmente, da quel meticoloso lavoro, precedentemente trattato, di Leonardo
da Vinci.
E’ tanto assurdo leggere talune poesie di Valéry e ricevere la
percezione di avere di fronte un vero e proprio dipinto?
Si prenda ad esempio in esame la sua celebre poesia “Le cimetière marin”. Nel leggerla si
viene a creare automaticamente, secondo quando il filosofo britannico Thomas
Hobbes teorizzava, una rappresentazione mentale del luogo e dei particolari di
cui la poesia tratta. Ovviamente tali rappresentazioni varieranno da persona a
persona.
Proverò quindi a descrivere al mia.
Qui, attraverso ingegnose metafore si dà l’idea di un cimitero
circondato dal mare. La prospettiva è tale che il mare diviene cielo “où marchent des colombes”[18].
Una rappresentazione così accurata che sembra “dipinta” en plein air e con una
resa coloristica che ricorda lo stile impressionista.
La luce diffusa viene originata da “Midi le juste”[19],
il sole di Mezzogiorno, che infiamma il mare col suo fulgore. Questo vivo
splendore si contrappone però al “cimetière
marin” dominato dalle ombre dei pini e dalle tombe. Qui primeggia il
silenzio di chi ormai non ha più niente da dire. La citazione, “Anima, non cercare una vita immortale”[20],
di Pindaro, che precede la poesia,
acquista ora un senso. La vita è destinata a giungere al termine, ma nonostante
questo bisogna tentare di vivere. Occorre puntare lo sguardo là dove scintilla
il mare punteggiato dal biancore di numerose vele, là dove la vita risuona con
i suoi bagliori.
Pertanto ritengo che questo poema possa essere visto come un grande
tela in cui luce e colori regnano sovrani sormontando la penombra del cimitero.
Un’ opera accostabile forse ad un dipinto impressionista. Dietro di sé cela un
abile e minuzioso lavoro che ricorda quello compiuto da artisti come Leonardo e
Degas. Il lettore diviene osservatore, viene catturato da questa folgorante “tela” ed ha la sensazione di trovarvisi
quasi al suo interno.
Sicuramente questa mia rappresentazione si differenzierà da quella
di chiunque altro.
In
ognuno prenderà comunque forma, a seguito della lettura di tale poesia, un
certo tipo di paesaggio, con una determinata resa di luci e colori, a seconda
dell’interpretazione che se ne sarà data. Ad ogni rappresentazione
corrisponderà così una distinta “tela
mentale”.
Tutte
le concezioni prima discusse di Paul Valéry sull’arte sembrano qui raggruppate
col risultato di un’opera che da poesia diviene, quindi, vero e proprio dipinto
di mirabile fattura.
Valéry,
che afferma che l’estetica non è il suo forte, che sostiene di essere come un
cieco in materia alla fine non risulta poi molto diverso da quei pittori a
lungo decantati. Poesia e arte sono sicuramente parte integrante delle sue
opere in cui l’eufonica modulazione di parole diviene armonica modulazione di
colori.
BIBLIOGRAFIA
Edizioni
·
Paul Valéry, “œuvres”, “Pièces sur l'art”, édition
étabilie et annotée par ean Hytier, Gallimard, Paris, c1957-c1960
·
Paul Valéry, “Degas
Danse Dessin”, Gallimard Education, 1998
·
P.Valéry.
Introduction à la méthode de Léonard de
Vinci, Gallimard, 1992
·
Leonardo da Vinci, “Trattato della pittura”, Newton & Compton, 2007
Traduzioni
·
P.Valéry. “Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci, Trad.it. di Stefano Agosti,
Abscondita, Milano, 1995
·
Paul Valéry, “Il Cimitero marino e altre poesie”,
Trad.it. di G. Pontigga, Introd. Di V. Magrelli, grafica studio Baroni, Roma,
1995
Sitografia
·
G.Vasari,
“Le vite de' più eccellenti pittori, scultori, e architettori”
(URL= http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_5/t129.pdf)
·
T. Hobbes
(URL=http://www.filosofico.net/hobbes105.htm)
NOTE A PIE' DI PAGINA
[1]Paul Valéry, “œuvres”, “Pièces sur
l'art”, “Degas Danse Dessin”,
“Intorno a Corot”, tr.it. di Vivian
Lamarque in Scritti sull’arte, Degas, danza, disegno, Tea, 1996
[Bisogna sempre scusarsi di parlare di
pittura. Ma ci sono rilevanti ragioni per non tacerne].
[2]
P.Valéry. “Introduction à la méthode de Léonard de Vinci”, Gallimard, 1992
[4]
G.Vasari, “Le vite de' più
eccellenti pittori, scultori, e architettori”
[5]
P.Valéry “Introduzione al metodo di
Leonardo da Vinci”, “Nota e
digressione”, 1919 tr.it. di Stefano Agosti, Abscondita, Milano, 1995
[6]
P.Valéry. “Introduction à la méthode de
Léonard de Vinci”, “Note et digressions”, p.21, Gallimard, 1992
[Leonardo di ricerca in ricerca,
molto semplicemente, si pone sempre più, e in modo mirabile, al servizio della
propria natura. Controlla infinitamente i propri pensieri, esercita i propri
sguardi, sviluppa i propri atti. Dirige una e l’altra mano ai disegni più precisi.
Si abbandona e si raccoglie, stringe le corrispondenze fra la sua volontà e il
suo potere, introduce
la propria riflessione nelle arti, e preserva
sempre la sua grazia].
[7]
P.Valéry.
“Introduction à la méthode de
Léonard de Vinci”
[E’ il maestro dei
volti, delle anatomie, delle macchine. […] Si astrae sino a contemplare questi
fenomeni nel loro insieme meccanico, sino a sentirli nell’indipendenza
apparente o nella vita dei loro frammenti, in una manciata di sabbia che si
perde nel vento, nell’idea smarrita di ogni combattente in cui ci contorce una
passione o un dolore inconfessabile. Si colloca all’interno del corpicini
timido e brusco dei bimbi, conosce la misura del gesto dei vecchi e delle
donne, la semplicità del cadavere. Possiede il segreto di creare esseri
fantastici la cui esistenza diventa probabile, e in cui la deduzione che ne
accorda le parti è tanto rigorosa che l’insieme diventa vivo e naturale].
[8]
Leonardo da Vinci, “Trattato della pittura”, Newton & Compton, 2007
[9]
Paul Valéry, “œuvres”, “Pièces sur l'art”,
Degas Danse Dessin, p. 1221. tr.it. di
Vivian Lamarque in “Scritti sull’arte”,
“Degas, danza, disegno”, p.p. 53-54.
Tea, 1996
[La modernità procede con lo stesso passo di
una intossicazione. Dobbiamo aumentare la dose o cambiare veleno. Questa è la
legge. Sempre più avanzata, più intensa, più grande, più veloce e sempre più
nuova, tali sono le sue esigenze che corrispondono necessariamente a un certo
irrigidimento della sensibilità. Abbiamo bisogno, per sentirci vivi, di una
intensità crescente degli agenti fisici e di una perpetua diversione... Il
ruolo determinante che avevano, nell’arte di un tempo, le considerazioni di
durata viene pressoché abolito. Penso che oggi nessuno faccia qualcosa per
essere apprezzato tra duecento anni.]
[10]
Paul Valéry, “œuvres”,” Pièces sur l'art”, tr.it. di Vivian Lamarque in “Scritti sull’arte”, “Degas,
danza, disegno”, Tea, 1996
[11]
Paul Valéry, “œuvres”, “Pièces sur l'art”, “Triomphe de Manet”,
p.147. tr.it. di Vivian Lamarque in “Scritti
sull’arte”, Tea, 1996
[Sullo sfondo neutro
e chiaro una tenda grigia, è dipinta la sua figura, un po’ più piccola che
nella realtà.
Sopra ogni cosa mi ah
colpito il nero, il nero assoluto, il nero di un cappello da lutto e del
sottogola di quel piccolo cappello, confusi con le ciocche di capelli castani
dai riflessi rosati, quel nero che è unicamente di Manet.
Al cappello è
attaccato un largo nastro nero, che scende oltre l’orecchio sinistro, e che
avvolge il collo infagottandolo; e la mantellina dall’apertura di un colletto
di stoffa bianca.
Queste zone
splendenti di nero intenso inquadrano e mettono in risalto un viso dagli occhi
neri troppo grandi, dall’espressione distratta e come lontana. La pittura è
fluida, scorrevole e ubbidiente alla morbidezza del pennello; e le ombre del
viso sono così trasparenti, le luci così delicate che penso alla sostanza
tenera e preziosa di quella testa di giovane donna di Vermeer che si trova nel
museo dell’Aja].
[12] Paul Valéry, “œuvres”, “Pièces sur l'art”, “Triomphe de Manet”,
p.1332, tr.it. di Vivian Lamarque in “Scritti
sull’arte”, p.146, Tea, 1996
[la pertinenza per ricercare le sostanza dell’arte di Manet.]
[13]
Paul Valéry, “œuvres”, “Pièces sur l'art”, “Triomphe de Manet”,
p.1333, tr.it. di Vivian Lamarque in “Scritti sull’arte”, p.148
[Mediante l’armonia insolita dei colori, la
dissonanza della loro intensità; mediante l’accostamento del particolare futile
ed effimero di un vecchio copricapo a un non so che di tragico nell’espressione
del viso, Manet fa risuonare la sua opera, combina il mistero con la fermezza
della sua arte.]
[14] Ivi, in Degas Danse Dessin, p.1179, tr.it. p.20
[Ammira
e invidia la sicurezza di Manet, il cui occhio e la cui mano sono certezze, c
he vede infallibilmente ciò che, nel modello, gli darà occasione di scatenare
tutta la sua forza, di eseguire a fondo. Esiste in Manet una potenza decisiva,
una sorta di istinto strategico dell’azione pittorica. Nelle tele migliori
tocca la poesia, vale a dire la sommità dell’arte, con ciò che mi permetto di
chiamare…la risonanza esecutiva.]
[15]
Paul Valéry, “œuvres”, “Pièces sur l'art”, “Degas Danse Dessin”,
p.1190, tr.it. di Vivian Lamarque in “Scritti
sull’arte”, “Degas, danza, disegno”,
Tea, 1996
[Egli ha un bell’attaccarsi
alle ballerine: le cattura più che raggirarle. Le definisce.
Come uno scrittore che vuole
raggiungere la precisione ultima della sua forma moltiplica le stesure,
cancella, avanza a riprese e non si dà tregua finché non ha raggiunto lo stato
postumo della pagina, così Degas riprende all’infinito il disegno, l’approfondisce,
lo stringe, lo aggira, di foglio in foglio, di calco in calco.
Egli torna talvolta su
questo genere di prove; vi mette dei colori, mescola il pastello al carboncino:
le gonne sono gialle su una, viola sull’altra. Ma la linea, i gesti, la prosa,
sono là sotto; essenziali e separabili; utilizzabili in altre combinazioni.]
[16] Paul Valéry, “œuvres”, “Pièces sur l'art”, p.1318, tr.it. di Vivian Lamarque in Scritti sull’arte, p.p.
136-137, Tea,
1996
[mai
alberi più vivi, nuvole più mobili, né sfondi più ampi, terra più ferma, furono
disegnati sulla carta.]
[17] Paul Valéry, “œuvres”, “Pièces sur l'art”, p.1318, tr.it di Vivian Lamarque in “Scritti sull’arte”, p.135, Tea, 1996
[Non
tutti i pittori però –intendo tutti i migliori- sono poeti in egual misura. Si
vedono moltissimi quadri ammirevoli che si impongono per la loro perfezione, ma
tuttavia non “cantano”.
Può
anche succedere che il poeta nasca tardi in un pittore, il quale sino allora
non era che un grande artista.]
[18]
Paul Valéry, “Il Cimitero marino e altre poesie”, Trad.it. di G. Pontigga,
Introd. Di V. Magrelli, p.68, grafica studio Baroni, Roma, 1995
[19] Ibid.
[20]Citazione
da Pindaro, Pitica III