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sabato 18 dicembre 2010

Valéry: à la recherche de l’Art perdu

Una mia relazione che riguarda Paul Valéry e l'arte.
Ammetto di condividerla qui per rischiare di non perderla nel caso la elimini in qualche modo sul computer (e conoscendomi non è una cosa inverosimile).
Però se vi interessa...



                             Valéry: à la recherche de l’Art perdu
                                                                                
“On doit toujours s’excuser de parler peinture.
                                                                             Mais il y a de grandes raisons de ne pas s’en taire”[1]

                                                                                                  P.Valéry, 



L’influenza di un panorama ostile
Paul Valéry nacque verso la seconda metà del XIX secolo, e più precisamente il 30 ottobre 1871, in un periodo in cui era ancora percepibile quel sentimento di “mal du siècle” romantico fatto di tedio, annichilimento e malinconia. La Francia era appena uscita sconfitta dalla battaglia di Sedan contro il Regno di Prussia con la conseguente grave perdita dell’Alsazia-Lorena e si apprestava ad attraversare una grave depressione ventennale. A conclusione di questa fase ostica e malsana, nel 1895, comincerà una periodo di pace e benessere che alimenterà il mito della “belle époque”, ovvero di un’epoca di spensieratezza ed eleganza che, come testimonieranno innumerevoli scoperte rivoluzionarie, farà del progresso la sua parola chiave. Dietro questa calma apparente però si nasconderà una certa turbolenza frammista ad un sentimento di disagio e di alienazione che da lì a pochi anni avrebbe portato allo scatenarsi di un terribile e smodato conflitto di livello mondiale.
Edvard Munch, “Il grido”,1893, olio, tempera, 
pastello su cartone, 83,5×66 cm, Galleria nazionale, Oslo
E questa ombra di agitazione verrà avvertita chiaramente da artisti e letterati che, attraverso le loro opere, si faranno garanti di una società sempre più profondamente classista e inquieta.
E’ in tale clima che Edvard Munch innalzerà, mediante la sua celebre opera “Il grido” (1893), un urlo agghiacciante di afflizione e sgomento anticipatore di quel disagio che le cosiddette Avanguardie storiche mostreranno chiaramente attraverso le loro opere rivoluzionarie. 
Le esperienze artistiche dei primi del Novecento matureranno, infatti, in un contesto generale più che mai ricco di incertezze e perplessità. Gli studi che proprio in quegli anni Sigmund Freud stava compiendo sulla psicoanalisi, scoperchiando per la prima volta quel mondo che risiede nell’inconscio di ciascuno di noi e che a volte riesce a manifestarsi solo attraverso i nostri sogni o brame repressi, contribuiscono ad aprire ulteriori orizzonti di ricerca. In pratica l’arte non deve più trovare le proprie motivazioni soltanto in quella realtà visibile che i filosofi chiamano fenomenica, ovvero percepibile attraverso i fenomeni nei quali si manifesta, ma può aprire la propria indagine anche nel campo sconfinato della realtà interiore e del sogno.
Sul piano della ricerca scientifica, invece, le elaborazioni teoriche di Albert Einstein dimostrarono che spazio e tempo non sono entità assolute, tra loro distintive e indipendenti.
Contemporaneamente destarono grosso scalpore anche le riflessioni del filosofo francese Henri Bergson secondo cui l’energia fondamentale che muove l’universo è quella che egli definisce slancio vitale e che consiste in un irresistibile impulso a creare spontaneamente forme e situazioni sempre nuove e imprevedibili. In tale visiono il tempo non esiste più come successione di singoli attimi, ma come durata complessiva, percepibile più a livello di intuizione che con gli strumenti razionali.
E’ questo lo scenario in cui sorsero le cosiddette Avanguardie storiche. Tra queste la principale è il Fauvismo che, originatosi attorno al 1905, affermava il bisogno di dipingere secondo il proprio sentire interiore e non sulla base di impressioni. Una pittura quindi immediata e istintiva in cui il colore è assolutamente svincolato dalla realtà che rappresenta.
Dello stesso anno è il movimento del Die Brücke ("Il Ponte") che esasperava la forma mediante linee ad angolo aguzzo.
Con il Cubismo, nel 1907, si ebbe invece una semplificazione delle geometrie dei corpi e dello spazio, che viene esso stesso materializzato divenendo un oggetto al pari degli altri, da scomporre secondo i taglienti piani geometrici che lo compongono, a cui si aggiunge une percezione della realtà non più visiva, ma mentale, volta cioè a rappresentare tutto quello che c’è e non solo quello che si vede.
Poi, il 20 febbraio 1909, si ebbe il Futurismo la cui nascita è sancita da un Manifesto pubblicato da Filippo Marinetti sul giornale francese “Le Figaro”. Tale movimento puntava all’esaltazione della velocità espressa dalla nuova immagine dell’automobile, la cui bellezza viene ritenuta maggiore di quella della Nike di Samotracia. Vi è infatti un rifiuto del mondo classico
A tale movimento seguì, nel 1912, l’Astrattismo che prendeva ad esempio la musica, considerata pura espressione di esigenze interiori e non imitatrice della natura, e prescindeva dal mondo sensibile, concreto, della realtà conosciuta e conoscibile.
In seguito, nel 1916, sorse il Dadaismo, un movimento che era un nonsenso per definizione, tutto e nulla, gioco e paradosso. Esso puntava a riscattare l’umanità dalla follia che l’aveva condotta alla prima Guerra mondiale, e prova a farlo mediante il rifugio nella follia innocua dell’ironia e del ‘nonsense’ e il conseguente rifiuto, all’interno dell’opera d’arte, della bellezza, che è morta.
Enigmatiche erano invece le atmosfere espresse dalla pittura metafisica, costituitasi nel 1917. Luoghi che assumono l’aspetto di palchi dominati dal silenzio e dall’attesa di eventi sconosciuti, su cui prendono armonicamente posto non persone, ma manichini.
Infine, nel 1924, si costituì il movimento surrealista di cui Andre Bréton si può ritenere il fondatore. Tale avanguardia constatava che il sogno può costituire un’ottima parentesi all’interno della vita quotidiana dell’uomo e perciò lo esaltava, così come fa col mondo dei simboli e dell’irrazionale, attraverso un’arte prevalentemente figurativa e, tranne qualche eccezione, non astratta.
 E’ questo il contesto storico, artistico e culturale in cui Valéry crebbe e costituì il suo pensiero. Uno scenario che dietro una prima calma apparente celava in realtà le avversità di una società sempre più disorientata e pronta a frammentarsi da un momento all’altro, la cui spaccatura definitiva si ebbe con lo scoppio del primo grande conflitto mondiale ripercuotendosi in modo non indifferente anche sulle vite di artisti e letterati e di conseguenza sul loro pensiero.
Dall’esposizione di tale panorama sarà facile comprendere la concezione che Paul Valéry venne a concepire di arte e il motivo per cui rinnegò tutte quelle forme e movimenti artistici precedentemente discussi che si susseguirono nella prima metà del ‘900 a favore invece di taluni grandi pittori dell’Ottocento e, facendo un passo ancora più addietro nei secoli, di quello che ancor oggi è ritenuto uno dei più grandi artisti di sempre, ovvero Leonardo da Vinci, “l’artista stesso del mondo[2]”.
Cerchiamo quindi di inoltrarci in questa questione partendo innanzitutto dalla considerazione di Valéry sull’arte.

L’arte secondo Valéry
Valéry e Léonard: tra arte e scienza

Scrive Elena Pontiggia nella sua efficace postfazione ai Pièces sur l'art di Paul Valéry:
“Per Valéry l’arte è soprattutto esercizio nel duplice senso di azione e di compito tecnico. L’opera viene indicata con un vocabolario scientifico: si parla di ricerca, di operazioni, di problemi, di metodi, di precisione e di esattezza, di regole da seguire. Ma la scienza prevede una conclusione positiva, un momentaneo approdo: la coperta, la soluzione, la legge. L’arte invece si muove verso una meta aleatoria, sempre differibile: la sua perfezione consiste piuttosto in una possibilità.” [3]
Un’idea di arte quindi molto vicina a quel pensiero leonardiano, a quel suo “metodo” tanto caro a Valéry. Un modo di fare arte incentrato su un procedimento di tipo scientifico e quindi basato su un’analisi attenta e accurata.
Gli elementi devono essere studiati a fondo, “dissezionati”, al fine di capirne i funzionamenti e le peculiarità. E’ questo uno degli aspetti che il poeta apprezza in Leonardo da Vinci.

Ogni sua opera era studiata meticolosamente attraverso schemi di linee per individuarne la giusta prospettiva e le corrette proporzioni, il tutto testimoniato da scritti e disegni vari.
Scrive lo studioso d’arte cinquecentesco Giorgio Vasari sull’artista fiorentino:

“Non solo esercitò una professione, ma tutte quelle, ove il disegno s’interveniva […] ed era in quell’ingegno infuso tanta grazia da Dio ed una demostrazione sì terribile, accordata con l’intelletto e memoria che lo serviva, e col disegno delle mani sapeva sì bene esprimere il suo concetto, che con i ragionamenti vinceva e con le ragioni confondeva ogni gagliardo ingegno.” [4]
Una mente la sua capace di andare oltre quelli che fino a quel momento erano considerati limiti insormontabili. A lui piace osare, non desiste “dall’indagare nemmeno su ciò che è contenuto nel più esiguo frammento, nella più piccola scaglia del mondo”[5].
Dice a tal riguardo Valéry nell’“Introduction à la méthode de Léonard de Vinci” che “Léonard, de recherche en recherche, se fait très simplement toujours plus admirable écuyer de sa propre nature; il dresse indéfiniment ses pensers exerce ses regards, développe ses actes; il conduit l’une et l’autre main aux dessins les plusprécis; il se dénoue et se rassemble, resserre la correspondance de ses volontés avec ses pouvoirs, pousse son raisonnement dans les arts, et préserve sa grace.”[6]
Insomma questo è Leonardo, il più grande artista non solo del Rinascimento, ma di tutti i tempi, “le maitre des visages, des anatomies, des machines. […] Il s’est élevé à les voir dans leur ensemble mécanique, et à les sentir dans l’indépendance apparento u la vie de leurs fragments, dans une poignée de sable envolée éperdue, dans l’idée égarée de chaque combattant où se tord une passion et une douleur intime. Il est dans le petit corps «timide et brusque» des enfants, il connaît les restrictions du geste des vieillards et des femmes, la simplicité du cadavre. Il a le secret de composer des êtres fantastiques dont l'existence devient probable, où le raisonnement qui accorde leurs parties est si rigoureux qu'il suggère la vie et le naturel de l'ensemble.[7]
Valéry ritiene assurdo osservare un’opera di Leonardo prescindendo da tutto il lavoro meticoloso che vi sta dietro e che ha portato l’artista a compiere determinate scelte stilistiche e compositive.
Il pittore fiorentino non si serviva affatto di osservazioni inesatte e di segni arbitrari e ciò che lo guidava nelle sue scelte era “un’indefessa capacità di discernimento”.
Tutto ciò è appropriatamente ravvisabile nei numerosi disegni che precedono la realizzazione delle sue œuvres d'art”, dei veri e propri progetti con tanto di scritte a lato. Uno studio anatomico indiscutibile all’interno di quella che lui stesso chiamava “scienza della pittura”.
A tal proposito, all’interno del suo Trattato della pittura, Leonardo afferma che fra le scienze la pittura “è la prima; questa non s'insegna a chi natura nol concede, come fan le matematiche, delle quali tanto ne piglia il discepolo, quanto il maestro gliene legge. Questa non si copia, come si fa le lettere [...] questa non s'impronta, come si fa la scultura [...] questa non fa infiniti figliuoli come fa i libri stampati; questa sola si resta nobile, questa sola onora il suo autore, e resta preziosa e unica, e non partorisce mai figliuoli uguali a sé». Gli scrittori a torto non hanno considerato la pittura nel novero delle arti liberali, dal momento che essa non solo «alle opere di natura, ma ad infinite attende, che natura mai creò». E non è colpa della pittura se i pittori non hanno saputo mostrare la sua dignità di scienza, poiché essi non fanno professione di scienza e «perché la lor vita non basta ad intender quella.
Il primo principio della scienza della pittura è il punto, il secondo è la linea, il terzo è la superficie, il quarto è il corpo [...] il secondo principio della pittura è l'ombra»; e si estende alla prospettiva, che tratta della diminuzione dei corpi, dei colori e della perdita della cognizione de' corpi in varie distanze. Dal disegno, che tratta della figurazione dei corpi, deriva la scienza che si estende in ombra e lume, o vuoi dire chiaro e scuro; la qual scienza è di gran discorso.”[8]
Fino a questo punto abbiamo parlato di ciò che ha portato Valéry ad elogiare e a prendere come spunto un grande artista del passato quale appunto Leonardo, ma perché ripudiava l’arte moderna? Quale concezione aveva di essa?
Valéry constata come gli artisti moderni realizzino opere più come denuncia di un determinato stato di inquietudine risultante dal periodo periodo storico in cui vivono. Attraverso l’arte cercano un rifugio, una parentesi da tutto ciò che li attornia. E’ per questo che dipingono e non più per la ricerca di quel “bello ideale” indagato per secoli da pittori e scultori. Tutte le ricerche e i modelli artistici che prima di loro si sono susseguiti vengono quasi completamente accantonati.
Il sorriso della Monna Lisa viene così celato dall’ironica aggiunta di baffi e pizzetto nel ready-made rettificato del dadaista Marchel Duchamp; i paesaggi a resa quasi fotografica di vedutisti settecenteschi come Canaletto e Guardi vengono ora assorbiti dalla compenetrazione di luce e spazio, con tanto di stravolgimento di tutte le regole prospettiche, all’interno delle opere cubiste; la tanto contemplata “Nike di Samotracia” viene sopraffatta, nelle opere futuriste, dal rombo dei motori delle automobili in corsa.
Questi sono solo alcuni esempi di come le Avanguardie storiche si siano distaccante enormemente dal passato facendosi garanti di un modo di fare arte totalmente diverso e rivoluzionario, che mostra chiaramente i segnali di un’epoca di atrocità che si cerca, a seconda dei casi, di denunciare o eludere. A nessuno preme più di perseguire il “bello ideale”, di realizzare un’opera che venga ricordata, per la sua maestosità, nei secoli a seguire.
Tale arte però era troppo lontana dalla concezione che di essa aveva Valéry, ancora radicata al passato, a quel metodo leonardiano di cui si è a lungo discusso in precedenza.
In “Pièces sur l'art”, il poeta afferma:      
“L’allure de la modernité est toute celle d’une intoxication. Il nous faut augmenter la dose, ou changer de poison. Telle est la lo. De plus en plus avancé, de plus en plus intense, de plus en plus grand, de plus en plus vite, et toujours plus neuf, telles sont ces exigences, qui correspondent nécessairement à quelque endurcissement de la sensibilité. Nous avons besoin, pour nous sentir vivre, d’une intensité croissante des agents physiques et de perpétuelle diversion… Tout le role que jouaient, dans l’art de jadis, les considérationd de durée est à peu prés aboli. Je pense que personne ne fait rien aujourd’hui pour être gôuté dans deux cent sans. Le ciel, l’enfer, et la postérité ont beaucoup perdu dans l’opinion.”[9]

Valéry e l’Impressionismo
Ancora vicina, almeno in parte, a questo suo pensiero era la concezione artistica portata avanti dal movimento ottocentesco dell’Impressionismo. Esso, infatti, pur mostrando aspetti certamente innovatori, riporta alla luce tematiche ampiamente affrontate nel passato, in primis quella del paesaggio. Bisogna però premettere che il tema del paesaggio, come avremo modo di vedere successivamente, era rifiutato da certi impressionisti come Degas.
La sostanziale diversità dell’Impressionismo, che si situa in arco cronologico che va dal 1874 al 1886 (anni rispettivamente della prima ed ultima mostra impressionista), rispetto a ogni altra forma pittorica, risiede nel diverso modo di porsi in rapporto con la realtà esterna. Gli artisti che ne fanno parte si rendono conto che tutto ciò che viene percepito con gli occhi continua al di là del nostro campo visivo. Da questo deriva una quasi totale abolizione della prospettiva geometrica. Ciò che per loro conta maggiormente è la percezione che un certo stimolo esterno è in grado di suscitare. Partendo dalle proprie sensazioni, l’artista opera una sintesi sistematicamente tesa ad eliminare il superfluo per giungere a cogliere la sostanza delle cose e delle situazioni al fine di ricercare l’impressione pura.
Le opere venivano realizzate en plein air, all’aria parte, e con rapide pennellate di colore.

Influenti, inoltre, furono sicuramente l’invenzione della fotografia, che spinse certi artisti a cercare di rendere nelle loro opere un certo taglio fotografico, e gli studi sul colore effettuati in quegli anni dal chimico Chevreul.

Un’ arte quindi in stretto contatto ancora una volta con la scienza, seppur decisamente lontana da quella “scienza dell’arte” elaborata dal Leonardo. 


Manet e la “bella pittura”

Precursore di tale movimento è, riprendendo un’espressione di Valéry “lo scettico Manet, parigino disinvolto” che “credeva unicamente nella bella pittura”[10].

In particolare Valéry lo decanta attraverso la descrizione di un suo ritratto di Berthe Morisot, una pittrice francese anch’essa impressionista.
Tale ritratto viene descritto da Paul Valéry in questo modo:
Edouard Manet (1832-1883).Berthe Morisot
 con un mazzo di violette”, 1872. Olio su tela. Cm 55 x 40


Sur le fond neutre et clair d’un rideau gris, cette figure est peinte : un peu plus petit que nature.

Avant toute chose, le Noir, le noir absolu, le noir d’un chapeau de deuil et des brides de ce petit chapeau mêlées de mèches de cheveux châtains à reflets roses, le noir qui n’appartient qu’à Manet, m’a saisi.
Il s’y rattache un enrubannement large et noir, qui déborde l’oreille gauche, entoure et engonce le cou ; et le noir mantelet qui couvre les épaules, laisse paraître un peu de claire chair, dans l’échancrure d’un col de linge blanc.
Ces places éclatantes de noir intense encadrent et proposent un visage aux trop grands yeux noirs, d’expression distraite et comme lointaine. La peinture en est fluide, et venue facile, et obéissante à la souplesse de la brosse ; et les ombres de ce visage sont si transparentes, les lumières si délicates que je songe à la substance tendre et précieuse de cette tête de jeune femme par Vermeer, qui est au musée de La Haye.[11]

Una descrizione decisamente attenta e accurata per uno che dice di non avere “la pertinence de rechercher la substance de l’art de Manet”[12]
Questa pittura viene ritenuta sublime dal poeta. Una serie di colori e di linee che nella loro semplicità catturano a sé l’osservatore che si smarrisce nella profondità degli occhi della donna, di un nero, come definisce Valéry, “onnipresente”. Una combinazione questa che genera in quest’ultimo la sensazione di trovarsi di fronte ad una vera e propria poesia che “par l’harmonie étrange des couleurs, par la dissonance de leurs forces; par l’opposition du détail futile et éphémère d’une coiffure de jadis avec je ne sais quoi s’assez tragique dans l’expression de la figure, Manet fait résonner son œuvre, compose du mystère à la fermeté de son art.”[13]
Quindi non più solo accostamento tra arte e scienza, ma addirittura tra arte e poesia.

Degas: “il pittore delle ballerine”


Proprio questo modo di “dipingere” poesie era motivo di ammirazione e allo stesso tempo di livore per uno dei rappresentanti di spicco dell’Impressionismo, ovvero Edgar Degas.

A tal proposito, in “Degas Danse Dessin”, Valéry, parlando di Degas, scrive:

 “Il admire et invie l’assurance de Manet, de qui l’œil et la main sont les certitudes, qui voit     infailliblement ce qui, dans le modèle, lui donnera l’occasion de donner toute sa force, d’exécuter à fond. Il y a chez Manet une puissance décisive, une sorte d’instinct stratégique de l’action picturale. Dans ses meilleures toiles, il arrive à la poésie, c’est-à-dire au suprême de l’art, pa ce qu’on me permettra de nommer…la résonance de l’exécution”[14].


Tuttavia Degas era continuamente insoddisfatto della propria arte che continuò ad affinare con lo studio dei grandi del Rinascimento e le sue opere non potevano mai dirsi concluse poiché ogni volta che vi si ritrovava dinnanzi era pronto ad afferrare pennello e tavolozza e apportare nuove modifiche, spesso anche radicali.
Dietro alla realizzazione delle sue tele vi erano studi meticolosi testimoniati da innumerevoli disegni che riportano alla mente, seppur vagamente, quelli del grande Leonardo da Vinci.
Lui dava, a differenza degli altri impressionisti, grande importanza al disegno, eseguito non all’aria aperta, ma nel suo atelier. Secondo l’artista, infatti, anche l’impressione di un istante è così complessa e ricca di significati che l’immediatezza della pittura en plein air non può che cogliersi in modo riduttivo e superficiale. “Va molto bene copiare quel che si vede”, affermava l’artista, ma è assai preferibile “disegnare quello che non si vede più, se non nella memoria; è una trasformazione in cui l’immaginazione collabora con la memoria, e così non si riproduce se non quello che vi ha colpiti, cioè l’essenziale”.
La maggior parte di questi disegni preparatori ruota soprattutto attorno al tema della danza e infatti Valéry denominava Degas: “il pittore delle ballerine”.
Edgar Degas, “La lezione di ballo”, 1873-1875.
 Olio su tela. 85x75 cm. Parigi, Musée d’Orsay. 
Primo dei grandi dipinti appartenente alla serie della ballerine è “La lezione di ballo” realizzata tra il 1873 e il 1875. In esso l’artista rappresenta il momento in cui una ballerina sta provando dei passi di danza sotto l’occhio vigile del maestro mentre le altre ragazze, disposte in semicircolo, osservano attendendo a loro volta il proprio turno di prova. Numerosi sono gli studi compiuti attorno ciascuna delle ballerine del dipinto che il pittore eseguì con scrupolosa attenzione e di cui sono testimoni decine di schizzi preparatori.
“Nessun’ arte è tanto poco spontanea quanto la mia”, confessa al riguardo l’artista, “e quanto io faccio è il risultato della riflessione e dello studio dei grandi maestri. Dell’ispirazione, della spontaneità e del temperamento”, conclude provocatoriamente, “non so assolutamente nulla”.
I gesti e le movenze delle ballerine sono indagati con attenzione ossessiva. Una, seduta su di un pianoforte, si gratta la schiena, un’altra che si fa aria con un ventaglio, un’altra ancora che ride e così via.
Insomma ogni personaggio è colto in atteggiamenti quotidiani, o meglio, riprendendo una frase dell’artista  stesso, “come se si guardassero dal buco della serratura”.

Scrive ancora una volta Valéry in “Pièces sur l'art”:
“Il a beau s’attacher aux dancers: il les capture plutôt qu?il ne les enjôle. Il les définit.
Comme un écrivain qui veut atteindre la dernière précision de sa forme multiple les brouillons, rature; avance par reprises, et ne se concède jamais qu’ il ait rejont l’état posthume de son morceau, tel Degas: il reprend indéfiniment son dessin, l’approfondit, le serre, l’enveloppe, de feuille en feuille, de calque en calque.
Il revient parfois sur ces sortes d’épreuves; il y met des couleurs mȇle le pastel au fusain: les jupes sont jaunes sur l’une, violettes sur l’autre. Mais la ligne, les actes, la prose, sont là-dessous; essehtiels et séparables, utilisables dans d’autres combinasons.”[15]

Nelle tele di Degas non c’è più spazio per una rappresentazione di odalische o veneri che si accosti a quel “bello ideale” tanto ricercato in passato, fin dall’arte classica. A lui interessa rappresentare la spossatezza, i gesti e le le movenze di queste danzatrici in un’epoca in cui il quotidiano si era sostituito alla mitologia e le ballerine alle dee.
Le sue opere esibiscono inoltre il forte interesse di Degas per la fotografia che proprio in quel periodo si stava sviluppando. Molte, infatti, tra cui anche “La lezione di ballo”, mostrano un netto taglio fotografico e, proprio come in un’istantanea, alcune figure risultano fuoriuscire dall’inquadratura.
Alla fine Valéry trovandosi di fronte alle mirabili tele degassiane non può che rimanere esterrefatto e riconoscervi qualcosa di superiore, accostabile, proprio come in quelle di Manet, alla poesia.

I paesaggi poetici di Corot
Un ultimo pittore fra quelli trattati in “Pièces sur l’art” che Valéry considera anche poeta è Camille Corot. Questi appartenne alla cosiddetta scuola ottocentesca di Barbizon, ovvero a quella corrente paesaggista del realismo collegata alla località di Barbizon, in Francia.
Aggiungi didascalia
Certamente egli non ha niente a che vedere con un’artista come Degas che rifiutava la rappresentazione del paesaggio.
Valéry elogia Corot che è in grado di rendere, attraverso i semplici mezzi dell’artista, qualcosa di si stupefacente, “de merveilles” di luce e spazio.
“Jamais arbres plus vifs, plus mouvantes nuéès, ni de lointains plus larges, ni de terre plus sûre, ne furent faits de traits sur le papier.”[16]


I quadri di Corot si tingono di mirabili sfumature che ammaliano e allo stesso tempo travolgono l’osservatore fino a dargli quasi l’impressione di trovarsi lui stesso in quei suggestivi paesaggi, vere e proprie poesie di colori.
Un epiteto, quello di poeta, ovviamente non attribuibile, secondo Paul Valéry, ad ogni pittore illustre, almeno non in egual misura.

«Tous le peintres, pourtant, - j’entends tous les meilleurs, - ne sont pas également poétes.
On voit quantiés d’admirables tableaux qui s’imposant par leurs perfections, toutefois ne “chantent” pas.
Mȇme, il arrive que le poète naisse tard dans un peintre qui, jusque-là, n’était qu’ un grand artiste»[17]

Tali paesaggi sono ancora testimonianza di un’assiduità di prove e pazienti studi, ma Valéry temeva un progressivo distacco dell’arte da tali elementi. Un timore non infondato considerando che con l’affermarsi delle Avanguardie, a partire dai primi del ‘900, il paesaggio comincerà pian piano ad assumere un ruolo secondario fino a dissolversi completamente, sostituito da quelle forme e colori puri che assumeranno il ruolo di unici veri soggetti dell’opera.
Per cui Valéry si sente in dovere di elogiare Corot in quanto uno degli ultimi paesaggisti in grado di realizzare dei veri e propri paesaggi lirici che mostrano il suo forte desiderio di conoscere i meandri più segreti e nascosti della natura.
Non si può quindi che appoggiare Valéry quando ritiene Corot, esattamente come Leonardo, Manet e Degas, un artista capace di rendere le sue tele vere e proprie poesie. Ovviamente, però, ognuno lo fa con un suo stile e metodo personale e inimitabile.

Valéry…anche pittore?
Ma così come essi divengono poeti nella visione di Valéry, è forse azzardato ritenere quest’ultimo un pittore?
Valéry, tra l’altro, realizzò numerosi disegni preparatori, con tanto di descrizioni, in riferimento ai suoi scritti, influenzato, probabilmente, da quel meticoloso lavoro, precedentemente trattato, di Leonardo da Vinci.
E’ tanto assurdo leggere talune poesie di Valéry e ricevere la percezione di avere di fronte un vero e proprio dipinto?
Si prenda ad esempio in esame la sua celebre poesia “Le cimetière marin”. Nel leggerla si viene a creare automaticamente, secondo quando il filosofo britannico Thomas Hobbes teorizzava, una rappresentazione mentale del luogo e dei particolari di cui la poesia tratta. Ovviamente tali rappresentazioni varieranno da persona a persona.
Proverò quindi a descrivere al mia.
Qui, attraverso ingegnose metafore si dà l’idea di un cimitero circondato dal mare. La prospettiva è tale che il mare diviene cielo “où marchent des colombes”[18]. Una rappresentazione così accurata che sembra “dipinta” en plein air e con una resa coloristica che ricorda lo stile impressionista.
La luce diffusa viene originata da “Midi le juste”[19], il sole di Mezzogiorno, che infiamma il mare col suo fulgore. Questo vivo splendore si contrappone però al “cimetière marin” dominato dalle ombre dei pini e dalle tombe. Qui primeggia il silenzio di chi ormai non ha più niente da dire. La citazione, “Anima, non cercare una vita immortale”[20], di Pindaro, che precede la poesia, acquista ora un senso. La vita è destinata a giungere al termine, ma nonostante questo bisogna tentare di vivere. Occorre puntare lo sguardo là dove scintilla il mare punteggiato dal biancore di numerose vele, là dove la vita risuona con i suoi bagliori.
Pertanto ritengo che questo poema possa essere visto come un grande tela in cui luce e colori regnano sovrani sormontando la penombra del cimitero. Un’ opera accostabile forse ad un dipinto impressionista. Dietro di sé cela un abile e minuzioso lavoro che ricorda quello compiuto da artisti come Leonardo e Degas. Il lettore diviene osservatore, viene catturato da questa folgorante “tela” ed ha la sensazione di trovarvisi quasi al suo interno.
Sicuramente questa mia rappresentazione si differenzierà da quella di chiunque altro.
In ognuno prenderà comunque forma, a seguito della lettura di tale poesia, un certo tipo di paesaggio, con una determinata resa di luci e colori, a seconda dell’interpretazione che se ne sarà data. Ad ogni rappresentazione corrisponderà così una distinta “tela mentale”.
Tutte le concezioni prima discusse di Paul Valéry sull’arte sembrano qui raggruppate col risultato di un’opera che da poesia diviene, quindi, vero e proprio dipinto di mirabile fattura.
Valéry, che afferma che l’estetica non è il suo forte, che sostiene di essere come un cieco in materia alla fine non risulta poi molto diverso da quei pittori a lungo decantati. Poesia e arte sono sicuramente parte integrante delle sue opere in cui l’eufonica modulazione di parole diviene armonica modulazione di colori.

                                                  BIBLIOGRAFIA

Edizioni
·         Paul Valéry, “œuvres”, “Pièces sur l'art”, édition étabilie et annotée par ean Hytier, Gallimard, Paris, c1957-c1960
·         Paul Valéry, “Degas Danse Dessin”, Gallimard Education, 1998
·         P.Valéry. Introduction à la méthode de Léonard de Vinci, Gallimard, 1992
·         Leonardo da Vinci, “Trattato della pittura”, Newton & Compton, 2007

Traduzioni
·         Paul Valéry, “Scritti sull’arte”, Trad. di Vivian Lamarque, “Postfazione” di E.Pontiggia, Tea, 1996
·         P.Valéry. “Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci, Trad.it. di Stefano Agosti, Abscondita, Milano, 1995
·         Paul Valéry, “Il Cimitero marino e altre poesie”, Trad.it. di G. Pontigga, Introd. Di V. Magrelli, grafica studio Baroni, Roma, 1995

                                                                   Sitografia

·         G.Vasari, “Le vite de' più eccellenti pittori, scultori, e architettori”
           (URL= http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_5/t129.pdf)

·         T. Hobbes
            (URL=http://www.filosofico.net/hobbes105.htm)


                                                               NOTE A PIE' DI PAGINA
[1]Paul Valéry, “œuvres”, “Pièces sur l'art, “Degas Danse Dessin”, “Intorno a Corot”, tr.it. di Vivian Lamarque in Scritti sull’arte, Degas, danza, disegno,   Tea, 1996
[Bisogna sempre scusarsi di parlare di pittura. Ma ci sono rilevanti ragioni per non tacerne].

[2] P.Valéry. “Introduction à la méthode de Léonard de Vinci, Gallimard, 1992

[3] Paul Valéry, “Scritti sull’arte”, Trad. di Vivian Lamarque, “Postfazione” di E.Pontiggia, p.184, Tea, 1996                                                                                  
[4] G.Vasari, “Le vite de' più eccellenti pittori, scultori, e architettori”
[5] P.Valéry “Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci”, “Nota e digressione”, 1919 tr.it. di Stefano Agosti, Abscondita, Milano, 1995
[6] P.Valéry. “Introduction à la méthode de Léonard de Vinci, “Note et digressions”, p.21, Gallimard, 1992
[Leonardo di ricerca in ricerca, molto semplicemente, si pone sempre più, e in modo mirabile, al servizio della propria natura. Controlla infinitamente i propri pensieri, esercita i propri sguardi, sviluppa i propri atti. Dirige una e l’altra mano ai disegni più precisi. Si abbandona e si raccoglie, stringe le corrispondenze fra la sua volontà e il suo potere, introduce
la propria riflessione nelle arti, e preserva sempre la sua grazia].

[7] P.Valéry. “Introduction à la méthode de Léonard de Vinci
[E’ il maestro dei volti, delle anatomie, delle macchine. […] Si astrae sino a contemplare questi fenomeni nel loro insieme meccanico, sino a sentirli nell’indipendenza apparente o nella vita dei loro frammenti, in una manciata di sabbia che si perde nel vento, nell’idea smarrita di ogni combattente in cui ci contorce una passione o un dolore inconfessabile. Si colloca all’interno del corpicini timido e brusco dei bimbi, conosce la misura del gesto dei vecchi e delle donne, la semplicità del cadavere. Possiede il segreto di creare esseri fantastici la cui esistenza diventa probabile, e in cui la deduzione che ne accorda le parti è tanto rigorosa che l’insieme diventa vivo e naturale].
[8] Leonardo da Vinci, “Trattato della pittura”, Newton & Compton, 2007
[9] Paul Valéry, “œuvres”,Pièces sur l'art”, Degas Danse Dessin, p. 1221. tr.it. di Vivian Lamarque in “Scritti sull’arte”, “Degas, danza, disegno”, p.p. 53-54. Tea, 1996
[La modernità procede con lo stesso passo di una intossicazione. Dobbiamo aumentare la dose o cambiare veleno. Questa è la legge. Sempre più avanzata, più intensa, più grande, più veloce e sempre più nuova, tali sono le sue esigenze che corrispondono necessariamente a un certo irrigidimento della sensibilità. Abbiamo bisogno, per sentirci vivi, di una intensità crescente degli agenti fisici e di una perpetua diversione... Il ruolo determinante che avevano, nell’arte di un tempo, le considerazioni di durata viene pressoché abolito. Penso che oggi nessuno faccia qualcosa per essere apprezzato tra duecento anni.]
[10] Paul Valéry, “œuvres”,” Pièces sur l'art, tr.it. di Vivian Lamarque in “Scritti sull’arte”, “Degas, danza, disegno”, Tea, 1996
[11] Paul Valéry,œuvres”,Pièces sur l'art, “Triomphe de Manet”, p.147. tr.it. di Vivian Lamarque in “Scritti sull’arte”, Tea, 1996
 [Sullo sfondo neutro e chiaro una tenda grigia, è dipinta la sua figura, un po’ più piccola che nella realtà.
Sopra ogni cosa mi ah colpito il nero, il nero assoluto, il nero di un cappello da lutto e del sottogola di quel piccolo cappello, confusi con le ciocche di capelli castani dai riflessi rosati, quel nero che è unicamente di Manet.
Al cappello è attaccato un largo nastro nero, che scende oltre l’orecchio sinistro, e che avvolge il collo infagottandolo; e la mantellina dall’apertura di un colletto di stoffa bianca.
Queste zone splendenti di nero intenso inquadrano e mettono in risalto un viso dagli occhi neri troppo grandi, dall’espressione distratta e come lontana. La pittura è fluida, scorrevole e ubbidiente alla morbidezza del pennello; e le ombre del viso sono così trasparenti, le luci così delicate che penso alla sostanza tenera e preziosa di quella testa di giovane donna di Vermeer che si trova nel museo dell’Aja].
[12]  Paul Valéry, “œuvres”,Pièces sur l'art, “Triomphe de Manet”, p.1332, tr.it. di Vivian Lamarque in “Scritti sull’arte”, p.146, Tea, 1996
[la pertinenza per ricercare le sostanza dell’arte di Manet.]

[13] Paul Valéry, “œuvres”,Pièces sur l'art, “Triomphe de Manet”, p.1333, tr.it. di Vivian Lamarque in “Scritti sull’arte”, p.148  
[Mediante l’armonia insolita dei colori, la dissonanza della loro intensità; mediante l’accostamento del particolare futile ed effimero di un vecchio copricapo a un non so che di tragico nell’espressione del viso, Manet fa risuonare la sua opera, combina il mistero con la fermezza della sua arte.]
[14] Ivi, in Degas Danse Dessin, p.1179, tr.it. p.20
 [Ammira e invidia la sicurezza di Manet, il cui occhio e la cui mano sono certezze, c he vede infallibilmente ciò che, nel modello, gli darà occasione di scatenare tutta la sua forza, di eseguire a fondo. Esiste in Manet una potenza decisiva, una sorta di istinto strategico dell’azione pittorica. Nelle tele migliori tocca la poesia, vale a dire la sommità dell’arte, con ciò che mi permetto di chiamare…la risonanza esecutiva.]
[15] Paul Valéry, “œuvres”,Pièces sur l'art, “Degas Danse Dessin”, p.1190, tr.it. di Vivian Lamarque in “Scritti sull’arte”, “Degas, danza, disegno”, Tea, 1996
[Egli ha un bell’attaccarsi alle ballerine: le cattura più che raggirarle. Le definisce.
Come uno scrittore che vuole raggiungere la precisione ultima della sua forma moltiplica le stesure, cancella, avanza a riprese e non si dà tregua finché non ha raggiunto lo stato postumo della pagina, così Degas riprende all’infinito il disegno, l’approfondisce, lo stringe, lo aggira, di foglio in foglio, di calco in calco.
Egli torna talvolta su questo genere di prove; vi mette dei colori, mescola il pastello al carboncino: le gonne sono gialle su una, viola sull’altra. Ma la linea, i gesti, la prosa, sono là sotto; essenziali e separabili; utilizzabili in altre combinazioni.]

[16] Paul Valéry, “œuvres”,Pièces sur l'art, p.1318, tr.it. di Vivian Lamarque in Scritti sull’arte, p.p. 136-137, Tea, 1996
[mai alberi più vivi, nuvole più mobili, né sfondi più ampi, terra più ferma, furono disegnati sulla carta.]
[17] Paul Valéry, “œuvres”,Pièces sur l'art, p.1318, tr.it di Vivian Lamarque in “Scritti sull’arte”, p.135, Tea, 1996
[Non tutti i pittori però –intendo tutti i migliori- sono poeti in egual misura. Si vedono moltissimi quadri ammirevoli che si impongono per la loro perfezione, ma tuttavia non “cantano”.
Può anche succedere che il poeta nasca tardi in un pittore, il quale sino allora non era che un grande artista.]
[18] Paul Valéry, “Il Cimitero marino e altre poesie”, Trad.it. di G. Pontigga, Introd. Di V. Magrelli, p.68, grafica studio Baroni, Roma, 1995
[19] Ibid.
[20]Citazione da Pindaro, Pitica III